Libri di Alchimia, da Avicenna a Newton

L’alchimia ha origini antichissime, ed è fatta risalire all’arte sacra dell’antico Egitto. La tradizione alchemica che si è diffusa in Europa proviene tuttavia dal mondo arabo (Geber, Rhazes, Avicenna), dalla cui lingua deriva probabilmente l’espressione stessa di alchimia (‘al-kimyia’).

Gli interpreti moderni insistono sull’unitarietà di questa tradizione con argomenti scarsamente convincenti.

Essi tuttavia riconoscono che nell’alchimia sono presenti due diverse tendenze o aspetti: una pratica artigianale, che nel medioevo confluì nei ricettari per

la lavorazione dei metalli e la preparazione delle sostanze coloranti; una dottrina mistica, i cui fondamenti si trovano nel neoplatonico Corpus Hermeticum (la cui stesura originaria risale al II sec. d.C. o a poco prima) e nella Tabula Smaragdina.

La dottrina a cui l’alchimia attinge (o che ha contribuito a formare) è quella della simpatia universale delle cose: esiste una rete di legami occulti tra tutti gli elementi, animati e inanimati, del cosmo, tale che il mondo superiore e quello inferiore si corrispondono e si integrano reciprocamente.

Così l’oro e l’argento non sono soltanto metalli, ma anche i corrispondenti terreni del Sole e della Luna celesti. Oro e argento, Sole e Luna hanno la stessa essenza, sono forme diverse della medesima realtà, che è insieme materiale e spirituale, terrestre e celeste.

L’alchimia condivide con l’astrologia e la magia la concezione del cosmo come un tutto unitario e armonico, in cui anche l’uomo è inserito, ma insiste soprattutto sul concetto di ‘opera’: la ‘grande opera’ è la trasformazione dell’anima in sintonia con quella dei metalli.

I metalli raggiungono la perfezione nell’oro, l’anima nella vita.

Il pensiero metonimico caratteristico dell’alchimia non ha molto a che fare, in realtà, con il simbolismo razionalistico della moderna psicologia del profondo.

Il processo metonimico implica che la trasformazione del metallo vile in oro avvenga simultaneamente alla trasfigurazione dell’anima, prigioniera del male e della morte, nella vita eterna (l’elisir divino, la pietra filosofica), essendo i due processi essenzialmente la stessa cosa.

Il Rinascimento, promuovendo la conoscenza della letteratura greca, rilanciò anche i testi alchemici, che erano stati spesso la fonte degli alchimisti arabi noti nel medioevo.

Nel XVI e XVII secolo furono stampate numerose opere alchemiche, fino allora circolanti, più o meno segretamente, in copie manoscritte.

Sarà utile chiarire che l’esoterismo della letteratura alchemica ne costituì un tratto caratteristico fin dall’antichità, e non fu la conseguenza di persecuzione o condanna da parte dei poteri religiosi o politici, anche se molti alchimisti furono inquisiti nel XVII secolo in seguito all’energica azione controriformista del papato, e alcuni furono imprigionati e torturati dai principi che volevano carpirne i segreti.

In realtà l’alchimista era un iniziato (adepto) che si affidava ad un maestro affinché lo conducesse lungo i sentieri della ‘grande opera’, la quale, coincidendo con la vita stessa dell’alchimista, aveva, come ogni esperienza mistica, il carattere dell’individualità e dell’irripetibilità.

La diffusione delle opere per mezzo della stampa contrastava irrimediabilmente con uno degli aspetti più significativi della tradizione alchemica: ‘Arcana publicata vilescunt’, come si legge incongruamente sul frontespizio di Chymische Hochzeit (Strasburgo 1616) attribuita al leggendario (e longevo: 1388-1494) Christian Rosencreutz.

Questo spiega due fenomeni storici alquanto evidenti: la diffusione dei testi alchemici in Europa, avvenendo parallelamente alla nascita della nuova scienza che, a sua volta, riscopriva il sapere empirico, ma lo considerava pubblico e ripetibile, portò a un travisamento più o meno profondo del significato dell’opera alchemica; di conseguenza una parte di questa tradizione continuò a diffondersi manoscritta e per via orale.

Il primo fenomeno produsse un’interazione tra i procedimenti alchemici e quelli della nuova scienza, anche se gli storici sono ancora divisi sulla valutazione della sua effettiva incidenza.

Il risultato fu in ogni modo la scomparsa graduale dell’alchimia dalla cultura occidentale.

Il secondo fenomeno implica certamente una più lunga sopravvivenza, che resta difficile da documentare.

La letteratura alchemica, anche a volersi limitare alle opere stampate nel XVI e XVII secolo, è vastissima.

L’unico repertorio moderno esistente è quello, in due volumi, di John Ferguson, “Bibliotheca Chemica: a Catalogue of the Alchemical, Chemical and Pharmaceutical books in the Collection of the late James Young of Kelly and Durris”, Glasgow 1906 (ristampa fotolitografica, Londra 1954), che, come dice chiaramente il titolo, fu progettato come catalogo della collezione raccolta nella seconda metà dell’Ottocento dal chimico James Young.

Ferguson fu Regius Professor di Chimica all’Università di Glasgow dal 1874 e dedicò l’intera sua vita alla composizione della Biblioteca Chemica, che fu pubblicata, a spese della famiglia, dopo la sua morte.

L’opera di Ferguson non è tuttavia un semplice catalogo: chi fosse interessato al contenuto oltre che all’aspetto esterno dei libri, vi troverà preziose annotazioni biografiche, ricchi dettagli descrittivi, esaurienti discussioni storiche e cronologiche.

Nel XVII secolo la letteratura alchemica raggiunse il suo apogeo, per poi declinare rapidamente.

Due eventi contribuirono a rilanciare il sogno degli alchimisti agli inizi del secolo: le avventure di Alexander Seton, detto il Cosmopolita, e l’episodio della misteriosa confraternita dei Rosacroce (dal presunto fondatore Rosencreutz).

Alexander Seton (Setonius, Sutoneus, Sidonius ecc.), originario di Edimburgo, cominciò a girare il mondo, affermando di conoscere l’arte della trasmutazione.

In Olanda testimoni degni di fede assistettero il 13 maggio 1602 alla trasformazione del piombo in oro. L’oro così ottenuto fu lasciato come memento a Jacob Hanssen, un marinaio che, essendo naufragato qualche anno prima sulle coste scozzesi, era stato soccorso dallo stesso Seton.

Hannsen diede un pezzo di quell’oro al fisico van der Linden, il cui figlio, cinquant’anni dopo, lo possedeva ancora e lo mostrò a Daniel Morhof, l’erudito autore del Polysthor (Lubecca, 1688-92), che ha narrato l’episodio.

Seton, dopo aver girato per l’Olanda, si recò in Italia e poi in Germania, dando dimostrazioni della sua arte, che richiedeva l’impiego di una polvere color giallo limone; il filosofo e medico Jacob Zwinger, al quale pure toccò un pezzo d’oro trasformato, comunicò notizia di una di queste dimostrazioni in una lettera pubblicata sulle effemeridi dell’Academia Nature Curiosorum.

Giunto infine a Dresda, preceduto dalla fama delle sue dimostrazioni che ormai contavano su numerosi testimoni, Seton fu imprigionato e torturato dall’Elettore di Sassonia, Cristiano II, che credeva poco nell’alchimia, ma moltissimo nell’oro.

Una seconda serie di torture ridusse Seton in fin di vita, senza che egli svelasse il segreto della trasmutazione.

A questo punto, Michael Sendivogius, nobile polacco, con la scusa di persuadere il prigioniero a parlare, riuscì a liberarlo in modo rocambolesco e a portarlo a Cracovia.

Morto il Seton per le sevizie subite (1604), Sendivogius, a proprio nome, ne pubblicò l’opera (Novum Lumen Chymicum, Colonia 1618).

La vita di Sendivogius fu altrettanto se non più avventurosa di quella di Seton. Il nobile polacco aveva sposato la vedova del Cosmopolita, che possedeva il resto della polvere trasmutatrice.

Pare che, finita la polvere, di cui evidentemente non possedeva il segreto, Sendivogius non riuscisse a produrla, e che, negli ultimi anni della sua vita, ricorresse a trucchi per mantenere la sua reputazione.

Si dice anche che fosse stato invitato a unirsi alla confraternita dei Rosacroce, ma che avesse rifiutato.

Tutto quel che si conosce dei Rosacroce è contenuto in un libretto, la Fama Fraternitatis che sarebbe stato pubblicato a Kassel nel 1614 e ripubblicato l’anno dopo con l’aggiunta di un altro trattato, la Confession.

Sull’esistenza di queste due edizioni ci sono dubbi, giacché pare che nessuno le abbia mai viste, e si conosce soltanto l’edizione, nello stesso luogo, del 1616.

Intorno a questi libri, come sul Chymische Hochzeit, si accese un clima di grande eccitazione.

Tra i primi seguaci ci furono Robert Fludd, che scrisse un’apologia della confraternita (“Apologia compendiaria”, Lione 1616) e Michael Maier (“Themis aurea, hoc est, de Legibus Fraternitatis R. C.”, Francoforte 1618).

La speranza di poter operare direttamente sulla materia, anziché sillogizzare a

vuoto, e di applicare alla medicina rimedi tali da sconfiggere la malattia e la sofferenza, contagiò proprio quegli studiosi che più si erano allontanati dalla filosofia delle scuole, ed erano alla ricerca di un nuovo accesso alla realtà.

Tra questi, oltre a Robert Boyle, occorre ricordare Isaac Newton, nella cui biblioteca erano presenti quasi tutte le opere alchemiche più importanti, a cominciare dal “Theatrum Chemicum” curato ed edito a Strasburgo da Lazarus Zetzner, in sei volumi, dal 1659 al 1661 (edito per la prima volta a Ursel nel 1602 in quattro volumi, ristampato a Strasburgo nel 1613 e nel 1622, con l’aggiunta di un quinto volume).

Il Theatrum, acquistato da Newton nel 1669, appena terminati gli studi universitari, è una vera e propria summa di autori alchemici, da Alberto Magno a Raimondo Lullo, da Nicolas Flamel a Sendivogius.

Paradossalmente, il bibliofilo interessato alle più rare opere alchemiche potrebbe utilizzare il catalogo della biblioteca di Newton (J. Harrison, “The Library of Isaac Newton”, Cambridge 1978) come utile guida per esplorare il mondo dell’alchimia.

Newton possedeva anche il “Catalogue of Chymicall Books (in three parts)” del libraio William Cooper (Londra 1675), oggi molto raro.

Il catalogo, in un’avvertenza al lettore premessa alla seconda parte, registrava la tendenza in atto: «Alcuni dei libri di questo catalogo non possono assolutamente esser detti alchemici, ma hanno un’affinità molto stretta con loro, la conoscenza della filosofia naturale essendo un’introduzione alle cose soprannaturali».

La filosofia naturale veniva con ciò premessa all’alchimia, una premessa che si sarebbe sempre più allungata, spingendo a poco a poco la filosofia occulta fuori dall’orizzonte conoscitivo.

Fonti:

M. Berthelot, La Chimie au Moyen Age, 3 voll., Paris 1893; A.J. Festugière, Corpus Hermeticum, 4 voll., Paris 1945; T. Burckhardt, Alchimia, significato e visione del mondo, Parma 1974; A. Poisson, Teoria e simboli dell’alchimia. Corredato da un dizionario dei simboli ermetici. Milano 1976; A. Coudert, Alchemy: the philosophers’ stone, London 1980; J. van Lennep, Alchimie: contribution à l’histoire de l’art alchimique, Brussel 19852; C. Gilchrist, Manuale Ecniclopedico della Bibliofilia, Edizioni Sylvestre Bonnard 1997; L’alchimia: Storia della pratica alchemica dalle origini al xx secolo, Firenze 1990; G. Roberts, The Mirror of Alchemy, London 1994.

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